I LAVORI STAGIONALI NEI VIGNETI
Le stagioni erano scandite dai lavori (Zappatura, potatura, solforatura, vendemmia, ecc.) che si dovevano effettuare nei vigneti. Questi ultimi, a causa dei terreni a terrazze, erano quasi tutti strutturati ad "alberello" dell'altezza di circa 90 cm con le viti distanti tra loro circa 1,20 cm , non esistendo ancora i moderni sistemi a spalla o contraspalliera.
Si comincia, appena finita la vendemmia, con liberare le viti da sostegni come pali e canne "spalatura" In seguito, dopo i primi freddi, e quindi a foglie cadute, si seguiva la "sbraula" o "sbarbattatura", all'americano piantato l'anno prima, a qualche vite più giovane venivano tagliate le radici superficiali, tutto per fare in modo che tali piante affondassero di più le radici principali nel terreno e resistessero quindi meglio alle ricorrenti siccità estive. Questa operazione permetteva all' "americano" di irrobustirsi e di presentare un ceppo ottimale al momento dell' innesto.
Il periodo invernale, dalla fine di novembre a gennaio, era considerato " morto" per le pratiche sul terreno. Le giornate estremamente corte non invogliavano certo i numerosi proprietari a far iniziare i lavori di zappatura nei vigneti. Ci si dedicava di più alle attività delle cantine, come il travaso del vino, oppure alla raccolta dei vari materiali che poi sarebbero stati interrati come concime. Gennaio era dedicato generalmente alla POTATURA (3) della vite che nelle zone più alte si effettuava a novembre, a seconda delle fasi della luna, all'epoca molto seguite per mezzo di almanacchi e di lunari. Un antico detto recitava in merito cosi: " Puta di manca e vinnigna di china", cioé pota con la luna mancante e vendemmia al contrario quando é piena.
La potatura era effettuata "alla latina" con due sole gemme e a vite bassa, oppure con tre gemme per ogni sperone o spalla. La resa media era di 60/70 quintali per ettaro nei fondali e quasi la metà nelle "scarogne o scarruni"o terrazze, le cui uve però più zuccherine e quindi più alcoliche. La pratica della potatura era seguita con molta attenzione dalle classi sociali più povere, le quali correvano ad assicurarsi i fasci dei tralci (sarmenti) delle viti che poi sarebbero stati utilizzati come ottimo combustibile insieme al CARBONE per i focolai delle case e soprattutto come legna per cuocere il pane nel forno a pietra, allora attività primaria delle donne di ogni casa , specialmente nelle frazioni di Solicchiata e Passopisciaro.
Dopo la potatura e quindi solamente a gennaio inoltrato, si dava inizio ai lavori del terreno. Per prima cosa c'era da arricchire il terreno con sostanze varie che venivano ricavate da letame (prodotto da bovini ed ovini), ma servivano anche, al medesimo fine, sarmenti verdi, felci, erbe dei muri, ginestre, rovi, foglie secche e frasca, cioè l'insieme di erbe secche, che si mietevano in sciare e castagneti del Comune. In molti casi, soprattutto alla fine del mese di Marzo, dentro i larghi solchi "saiuni" che erano stati aperti tra i sesti delle viti, ad una profondità di 50 o 60 cm, venivano sotterrate piante di fave e di lupini, che fornivano soprattutto humus ed azoto ai terreni. L'operazione di solchi veniva ripetuta nei fondi vitati ogni tre o quattro anni a rotazione, in modo di arricchire tutto il vigneto di sostanze naturali.
Nel mese di gennaio, venivano pure trapiantati nei vigneti dei vivai, la vite selvatica e gli ibridi americani: I vari ibridi riparia che sarebbero stati innestati con le varietà nostrali più coltivate e diffuse quali gli indigeni e molto antichi Catarratto e Carricante, Inzolia, Moscatella. Minella bianca e nera e Mantonico.
Prima dell'inizio dei lavori delle nuove stagioni, in molti casi e seguendo un' usanza abbastanza antica, i proprietari terrieri provvedevano ad assegnare su richiesta gran parte dei loro vigneti ad affittuari (cosiddetti gabelloti), i quali avrebbero provveduto ad effettuare, direttamente o con manodopera bracciantile, tutti i lavori annuali necessari nelle fasce vitate pertinenti, per poi dividere con i proprietari il prodotto finale. Questi ultimi, se l'annata era buona, davano agli inquilini il 40% di uva o di vino. Tuttavia erano molto più comuni i casi in cui agli inquilini toccava solo il 30% del prodotto, che non compensava affatto i sacrifici di tutta una annata.
Alla pratica della solcatura e quindi dell'arricchimento del terreno e dopo l'effettuazione della "sbraula", seguiva la prima zappatura che consisteva essenzialmente nell'innalzare, tra le viti, monticelli di terra di 50 o 60 cm a forma di coni "munzeddi", per far respirare meglio il terreno, esporlo maggiormente ai raggi solari e fargli assorbire meglio l'acqua piovana (per un migliaio di viti servivano in media 3 giornate di lavoro). Questi lavori venivano effettuati sotto il controllo continuo di massari, uomini di fiducia dei proprietari. Generalmente un bracciante agricolo più forte o più esperiente faceva il capo fila (si metteva all'anta) e dirigeva i vari colpi di di zappa dei braccianti a suo seguito. Dopo 50 o 60 giorni dalla prima zappatura, tali soprastanti si davano da fare per assoldare la Manodopera (4) bracciantile che avrebbero ripassato i "munzeddi", per far respirare meglio il terreno con una nuova veloce zappatura detta "zappuneddu" (due giornate di lavoro per ogni migliaio di viti circa), con la quale si rimodellavano meglio i coni di terra. A tale operazione se seguiva, dopo qualche tempo, un'altra più profonda detta " riterza" con questa si riducevano di numero i coni di terra. Spesse volte, data l'abbondanza di manodopera, alla riterza seguiva la " riterzicchia", ossia un'ulteriore zappa, effettuata nei terreni umidi che si ricoprivano più presto di erb
Ritornando ai vari lavori agricoli, la raccolta dei "sarmenti" era un'operazione esclusivamente femminile mentre le varie zappature, i lavori di dissodamento sciaroso "scatinu" e vagliatura dei terreni, erano manodopera obbligatoria degli uomini e rare erano le donne che vi si dedicavano o per estremo bisogno o perché lavoravano in terreni propri. Esisteva la manodopera infantile: erano molti i ragazzi che per aiutare le famiglie indigenti, lavoravano con gli adulti trasportando pietre, terra " frasca", letame ecc.
La diffusa povertà non permetteva a molti di loro di frequentare le scuole primarie, per cui l'analfabetismo era molto diffuso, soprattutto nei ceti sociali più poveri. I lavori di zappa, essendo pesanti, richiedevano abbondanza di cibo per sopperire al notevole dispendio di energia.
Durante la giornata lavorativa, che andava dall' alba al tramonto, in genere si aveva una prima sosta verso le ore 9.00, quando i braccianti mangiavano un piatto di " pesce stocco a ghiotta". Alle ore 13.00, c'era il secondo intervallo con un piatto di legumi (pasta con ceci, lenticchie oppure fave) o "maccu"(5) seguito da peperoni arrostiti oppure acciughe, formaggio pecorino o olive. A volte nella tarda primavera, si faceva un terza sosta la cosiddetta "viterna", di solito si mangiavano uova sode, tuttavia la situazione non era sempre cosi ed i braccianti spesso si dovevano portare da casa il cibo, formato da pane (le "vastedde"), lardo salato , formaggio. Come bevande utilizzavano oltre l'acqua delle Cisterne ,(6) "acquatina" o vinello frizzante ed in rari casi vino.
Alla fine del mese di marzo o ai primi di aprile, le viti, che già presentavano i primi germogli, venivano legati con rafia ai pali di castagno (palacciuni) o a canne, per impedire che fossero abbattute da improvvise raffiche di vento, specialmente nei terreni più esposti. Questa pratica dà un poco di lavoro ai legnamai dei vari paesi, i quali si procuravano i pali nei castagneti, tagliavano rami di castagno di altezza variabile fra m. 1,60 e m. 1,80, li appuntivano e li scorticavano, spesso la punta era leggermente carbonizzata per farla resistere di più nel terreno.
Quando le gemme raggiungevano i 10 cm di sviluppo, venivano irrorate (pumpiati con la pompa (7) a mano) con solfato di rame e calce ( " u virdiramu"), certo di eventuali attacchi di peronospera (8). Poi erano anche solforate, ossia cosparse di getti di zolfo in polvere per preservarle dall'odio ("u mali di surfuru"). Quest'ultima era un'operazione abbastanza pesante, poiché lo zolfo, produceva arrossamento e gonfiore agli occhi dei braccianti che maneggiavano la solfatrice, di solito si usava la caffettiera (9) o u mantici.
Le irrorazioni e le solfature erano in media quindicinali e seguivano lo sviluppo foliare delle piante. servivano essenzialmente per preservare le viti dai suddetti attacchi della peronospera, che se non prevenuta e bloccata in tempo, avrebbe pregiudicato la crescita e lo sviluppo normale delle foglie e dei grappoli.
Quando la vite aveva raggiunto un certo sviluppo foliare, ossia all'inizio del mese di giugno la "spulera" cioè la pulitura manuale delle singole viti, alle quali si strappavano i germogli laterali senza frutto ed una parte delle foglie vicine al tronco. In questo modo si dava respiro alla pianta e si facevano crescere ed irrobustire e fruttificare solo i getti con grappoli di uva. Tale operazione, la c.d. "spulera" si utilizzava manodopera femminile.
Tra la fine di giugno e l'inizio di luglio avveniva l'operazione inversa alla prima, zappa, per cui i coni di terra erano spianati "rifusi" e liberati dalle poche erbe nate (u rifunniri").
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3 Un antico detto popolare recitava cosi: "Innaru puta paru" cioè a gennaio puoi potare a tappeto perché è il periodo favorevole.
4 Nei primi anni 1900, la paga giornaliera di un bracciante agricolo a Castiglione di aggirava a 3 lire al girono. Mentre il vino era venduto a 22 lire ad ettolitro.
5 Le fave macinate o "maccu" erano un cibo presente nella mensa degli antichi romani.
6 Le cisterne, data l'assoluta mancanza di acque perenni, sono state per secoli, l'unico modo per approvvigionarsi d'acqua per la gente di Castiglione e dei paesi etnei.
7 Macchina che serviva a spargere sulla vite il solfato di rame. costituita di un serbatoio a forma cilindrica schiacciata di metallo, della capacità di 10 litri, che conteneva il solfato do rame. Questo serbatoio era portato a spalle del bracciante a mezzo di cinghia ed è in collegamento con una pompa azionata a mano. Con la mano destra l'operatore faceva agire il braccio della pompa, con la sinistra impugnava il polverizzatore, regolabile a volontà.
8 Peronospera: col termine di peronospera si designa un grande numero di funghi parassiti della famiglia della Peronosperacea. La P. nelle vite si manifesta dapprima sulle pagine superiore delle foglie, con piccole macchie più evidenti quando nelle pagine inferiore compaiono, in corrispondenza di esse, delle chiazze bianche dovute ad sottostante afflorescenza. (Sull'argomento consultare il volume Aloi: La peronospera Viticola: Mali e rimedi. Galati, Catania 1886, C. Malerba: La peronospera ed i mezzi per comatterla.
9 Contenitore di zinco con dei buchi sul fondo da cui usciva lo zolfo.
GLI INNESTI
Viti americani ed ibridi cominciavano ed essere innestate a quindi produttivi. Questa delicata pratica era riservata all'innestatore, un persona abile e " specialista", il quale dopo che un bracciante aveva provveduto a scavare una fossa attorno all'americano tagliava con le forbici da potare la parte superiore della pianta e incideva a "spacco" o in altro modo con un coltello tagliente senza punta ("u cuteddu di nziti") il restante inferiore, sul quale veniva innestato una parte di tralcio di un'altra vite, già tagliata o sotterrati durante il plenilunio precedente.
Un altro tipo di innesto "ad occhiu" veniva effettuato nel mese di giugno quando la vite era in piena vegetazione. Si staccava la gemma di una vite e la si inseriva in un sarmento di un'altra, cioè "du miricanu", tutto veniva fasciato lateralmente con l'elastico di nziti, lasciando la gemma dell'innesto libera di svilupparsi.